Viviamo tempi incerti che stanno ridefinendo il “cambiamento” come una sorta di nuova normalità (mentre in passato si trattava di momenti o di fasi eccezionali o al più cicliche della storia e della vita aziendale). Una nuova “normalità” che non è facile accettare perché il cambiamento è più spesso un’esperienza che ci troviamo costretti ad affrontare piuttosto che un’esperienza che scegliamo autonomamente di vivere. In più, malgrado la pura osservazione ci insegni da sempre che il mutamento è parte integrante del vivere (è una verità biologica, sociale ed esistenziale) la nostra (comprensibile) tendenza psicologica è quella di attaccarci ed affezionarci all’idea che il Mondo sia “fermo” e che i suoi principi e le sue regole possano vivere -immutate – in eterno.
Ma come possiamo aiutare noi stessi e gli altri a vivere il cambiamento come un’esperienza – sì faticosa – ma anche arricchente e ispirante? Come possiamo trovare dentro di noi la forza di pronunciare un “Sì” al cambiamento per poterlo sperimentare e modificare anche a nostro vantaggio? Cercando di comprendere la dinamica del cambiamento da tre punti di vista: quello personale (che cosa ci aiuta individualmente ad affrontarlo), quello collettivo (che cosa aiuta un gruppo o un’organizzazione a partecipare ad un cambiamento) e quello organizzativo (quali strutture organizzative possono facilitare un percorso di cambiamento piuttosto che ostacolarlo)?
Dei tre, l’approccio personale al cambiamento è quello più importante perché determina non solo come noi ci relazioniamo con noi stessi nell’affrontare una trasformazione, ma anche come ci relazioneremo con gli altri (il team) e con l’organizzazione che abitiamo professionalmente.
Dunque, che cosa ci aiuta e cosa ci ostacola nei processi di cambiamento e trasformazione?
Per prima cosa ci aiuta rivedere il modo in cui percepiamo la nostra identità. Tendiamo tutti a raccontarci “dal passato” utilizzando il nostro CV professionale o esistenziale e questo ci porta a credere di essere principalmente ciò che abbiamo già fatto (o come lo abbiamo sempre fatto). Le cose cambiano se arricchiamo il racconto di noi stessi “dal futuro” ovvero se ci apriamo alla possibilità di poter essere definiti anche da ciò che potremmo fare un domani. La risposta alla domanda “chi sono Io” non è più solo la lista di ciò che sono stato ma anche la lista delle mie migliori possibilità e potenzialità future. Ed ecco che cambiare le nostre abitudini non ci apparirà più come un “tradimento” della nostra storia personale ma come una nuova opportunità.
Il secondo elemento riguarda il tema della paura. Cambiare fa paura ed è normale che sia così. Ma cosa fare? Come trovare il coraggio? Bene il coraggio in realtà non ci aiuta perché semplicemente non è qualcosa che possiamo “trovare”. Il coraggio è un concetto ideale che funziona solo nel mondo delle idee ma non nella realtà. Nella realtà l’antidoto alla paura è l’azione. Ed è dall’azione che emerge il coraggio, nel senso di “diminuzione progressiva della paura”, grazie all’esperienza. Iniziare a “fare”, a muovere un primo passo toglie energia alla paura. Se “facciamo” non abbiamo tempo di avere paura.
Collegato a questo punto è il terzo tema, quello dell’accettazione. Se a livello mentale rifiutiamo un’esperienza ovvero cerchiamo di allontanarla da noi, ci impediamo di conoscerla. Al contrario dovremmo imitare i neonati che per conoscere il Mondo lo toccano, lo mordono, lo manipolano. Se dentro di noi riusciamo a fare spazio all’idea che il nuovo possa entrare nella nostra vita, allora riusciamo a sperimentarlo in profondità, riusciamo a comprenderlo, ce ne facciamo un’idea più lucida e reale e ne cogliamo anche gli aspetti positivi. E soprattutto possiamo “lavorarlo” a nostro vantaggio (cosa che il “rifiuto” non ci consente di fare perché ci toglie la possibilità di sperimentare).
La quarta risorsa facilitante il cambiamento è l’autorizzazione all’errore. Non possiamo accettare il cambiamento (né fare progressi) se non riusciamo ad accettarci nell’errore, a darci il permesso di sbagliare. Se siamo giudici troppo severi di noi stessi sceglieremo di non sperimentare per non correre il rischio di sbagliare. Ma un cambiamento privo di rischi non è un “cambiamento” ma un mero adattamento. Quindi per poter cambiare dobbiamo volerci abbastanza bene da accettarci anche quando facciamo errori.
La quinta e ultima risorsa è quella della prefigurazione. Ciò che tendiamo a pensare e a provare emotivamente del futuro dipende da come lo prefiguriamo nella nostra mente. Se modifichiamo le nostre prefigurazioni modifichiamo anche i nostri atteggiamenti e le nostre credenze. Immaginare noi stessi in un contesto diverso sapendo prefigurarsi sia svantaggi che vantaggi cambierà radicalmente il nostro modo di porci che – al minimo – ridurrà il peso di giudizi e pregiudizi dando spazio ad una visione più realistica ed equilibrata del cambiamento.
Un’ultima considerazione, forse la più importante: ciò a cui ci opponiamo non è tanto il “cambiare” in sé, ma è “l’essere cambiati” ovvero il sentirci oggetti passivi di un processo di trasformazione. Facilitare l’inclusione e la partecipazione a questi processi diventa così di capitale importanza e può fare, nelle organizzazioni, una sostanziale differenza sul buon esito del percorso aziendale.